الجمعة، 9 فبراير 2024

Download PDF | Mongol Caucasia: Invasions, Conquest, and Government of a Frontier Region in Thirteenth-Century Eurasia (1204-1295), By Lorenzo Pubblici, Brill , 2022.

Download PDF | Lorenzo Pubblici - Dal Caucaso al Mar d'Azov_ l'impatto dell'invasione mongola in Caucasia fra nomadismo e società sedentaria, 1204-1295 -Firenze University Press (2007).

282 Pages 




Marcello Garzaniti 

PRESENTAZIONE 

Nel panorama della medievistica italiana il lavoro di Lorenzo Pubblici occupa certamente un posto assai originale. Il territorio che si sviluppa dal Mare di Azov fino al Caucaso, definito genericamente con il nome di Caucasia, appare geograficamente distante dall’Italia, o meglio dalle porzioni ristrette del nostro paese, oggetto dominante delle ricerche contemporanee, che lodevolmente stanno recuperando l’inestimabile patrimonio conservato nei nostri archivi. L’interesse principale dell’autore, si concentra sulle popolazioni nomadi che occuparono questo territorio a cominciare dal XIII secolo, Tartari o Mongoli che dir si voglia, e cerca di analizzare le profonde trasformazioni dell’area nel contesto dei nuovi e precari equilibri che essi crearono. Si tratta dunque di uno studio di sintesi, fatica assai improba, soprattutto per un giovane studioso, e per giunta su una tematica assai complessa con una bibliografia che già di per sé rappresenterebbe un forte ostacolo a un medievista maturo. Gran parte delle opere, che si trovano citate in bibliografia non sono soltanto nelle correnti lingue occidentali, ma sono scritte in russo e sappiamo quanto sia difficile oggi trovare medievisti che conoscano questa lingua. In genere ancora oggi dobbiamo dire con rammarico: slavica non leguntur. Grazie al russo si può ancora oggi, almeno in parte sopperire, all’ignoranza delle singole lingue caucasiche, mi riferisco soprattutto all’armeno e al geogiano, la cui conoscenza, almeno elementare, sarebbe comunque auspicabile per chi si interessa dell’area. A questo si debbono aggiungere le inevitabili nozioni nell’ambito delle lingue turche, indispensabili se ci si occupa delle steppe euroasiatiche. Certo si tratta di investimenti culturali, che comportano anni di fatica, ma che aprono grandi prospettive nello studio delle fonti e della storia medievale nel suo complesso. 















L’attenzione agli etonimi e alle definizioni delle strutture sociali del mondo tartaro, che troviamo nel saggio, ci mostrano proprio questa fondamentale sensibilità linguistica, che vorremmo più spesso incontrare. La tematica scelta è resa più complessa dalle implicazioni culturali, che queste riflessioni trascinano con sé a cominciare dal XX secolo conservando tutt’oggi grande attualità. L’avanzata mongola, che si arrestò solo nel cuore dell’Europa e l’imposizione della pax mongolica in gran parte del continente euroasiatico sconvolsero profondamente gli equilibri del Medio oriente, del mondo mediterraneo, ma più specificamente dell’area delle steppe eurasiatiche su cui più tardi si estenderà l’Impero russo. Accostarsi alla “questione mongola” significa inevitabilmente considerare le trasformazioni profonde, che l’invasione tartara provocò nel mondo slavo-orientale. 















Con la decadenza dell’antica città di Kiev si venne progressivamente a creare un nuovo centro di potere, Mosca, che pur patendo il dominio mongolo ha saputo alla fine attirare nella sua orbita non solo le steppe eurasiatiche, ma anche il Caucaso, la Siberia e l’Estremo oriente siberiano. La presenza e l’influsso dell’elemento “turanico” nel mondo russo, e più in generale slavo-orientale, non rappresentano dunque una questione secondaria, ma richiamano la formazione della sua identità e la fondamentale domanda sull’appartenenza della Russia all’Europa. Ravvivata dalla Rivoluzione d’ottobre e dall’ideologia eurasista negli anni venti e trenta la questione rimane oggetto di riflessione e di polemica ed ha profondamente influenzato la storiografia russa e sovietica. 
















La formazione medievale del Canato dell’Orda d’oro rappresenta dunque l’inevitabile punto di partenza per comprendere le trasformazioni dell’intera area e preludono alle trasformazioni che hanno segnato l’epoca moderna. Non sarebbe possibile altrimenti comprendere né i rapporti della Russia con il Caucaso, né le altrettanto attuali problematiche connesse alle relazioni con l’Ucraina. E più spesso, ne siamo convinti, i politologi se lo dovrebbero ricordare. Di grande importanza ci sembra soprattutto l’approccio metodologico dell’autore, che non si limita alla ricostruzione della storia dei Mongoli, su cui peraltro esistono già valide sintesi. L’attenzione si concentra piuttosto sulla struttura sociale con particolare riguardo al nomadismo, alla luce dei risultati dell’antropologia, dell’archeologia e della storiografia, cercando soprattutto di cogliere i rapporti fra questa realtà e il mondo sedentario conquistato, e quindi le trasformazioni e i nuovi equilibri sociali ed economici, che ne scaturirono. 















In questo contesto assume una diversa interpretazione il ruolo delle colonie occidentali nel Mar Nero come punto di contatto diretto fra l’impero mongolo e i mercati occidentali in un processo di globalizzazione ante-litteram, che precede (e prepara) l’apertura delle nuove grandi vie commerciali dell’Atlantico. Non è un caso, come giustamente osserva l’autore, che la merce fondamentale sia rappresentata dagli schiavi (lo sarà alla fine anche per il Nuovo Mondo), in buona parte costituita da slavi orientali (meglio questa definizione che parlare semplicemente di russi). 














Ci viene alla memoria, allora, come nell’Alto medioevo sempre slavi erano stati gli schiavi venduti in Occidente, a cominciare da Venezia, in quantità così rilevanti da determinare la sinonimia lessicale fra servus e l’etonimo sclavus. L’autore si concentra soprattutto sui rapporti fra nomadismo e sedentarismo, proprio parlando della colonia di Tana. Quanto fossero comuni gli interessi delle potenze marinare occidentali con il canato mongolo dell’Orda d’oro lo dimostra la presenza di mercenari occidentali, provenienti da queste colonie del Mar Nero, al fianco dei tartari nella battaglia del Campo di Kulikovo (1389), poco oltre il fiume Don, che segnò la prima vittoria della Moscovia contro il dominatore tartaro. 




















Rimangono tante domande, come sempre in un’opera che tenta una nuova sintesi, molte, forse troppe, soprattutto per chi, come scrive, si occupa di storia della cultura dell’Europa orientale. Alcune sono almeno parzialmente soddisfatte, come la fondamentale questione del fattore religioso, in un’area che vede la presenza di comunità cristiane diverse, orientali e occidentali, e comunità islamiche diverse, sunniti e sciti nel contesto di una pax mongolica assai lontana dalla tolleranza religiosa di cui ancora certa storiografia favoleggia. Rimane abbastanza in ombra l’influsso sulla cultura materiale dell’impero mongolo e sulle strutture politiche ed economiche, anche se emerge già un generale quadro economico del mondo tartaro, capace di mettere in contatto diretto l’Oriente e l’Occidente e che aveva il suo centro nella due Saraj. Sarà proprio la loro scomparsa con le conquiste di Tamerlano e l’affermazione della Porta ottomana a determinare la ricerca di nuove vie commerciali per l’Oriente. Rimane da approfondire la questione della forma di feudalesimo, che si sarebbe affermata nell’impero mongolo, su cui si può discutere. Il lavoro doveva, comunque, avere dei limiti non solo cronologici, se voleva giungere al suo termine. 




















Con particolare soddisfazione abbiamo letto le pagine sull’aspetto demografico, che pur limitatamente a determinate aree mostrano le gravissime conseguenze sul territorio provocate dalle ripetute invasioni mongole, soprattutto nella fase iniziale, con la scomparsa di numerosi insediamenti. E questo ancora una volta contraddice una storiografia contemporanea che ha cercato di sminuire l’impatto distruttivo della calata mongola, sottolineando gli aspetti positivi della conquista tartara. Molti sarebbero gli spunti di riflessione, ma lasciamo al lettore la libertà di coglierli e di trovarne di nuovi, nella speranza che il presente lavoro sia solo l’inizio di una ricerca, che continui a valorizzare la metodologia della nostra scuola medievistica, ma allo stesso tempo sappia aprire in questi tempi di radicali trasformazioni a una visione più ampia e globale della storia.













Introduzione

 Il libro nasce da una tesi di dottorato discussa all’Università degli Studi di Firenze nel marzo 2005. Quando, nei primi giorni del 2002, ebbe inizio il lavoro mi trovai dinanzi ad alcuni problemi che ancora oggi non sono riuscito a risolvere del tutto. Era mio intendimento ripercorrere le orme di uno dei maggiori storici contemporanei che si sono occupati di Mar Nero e della sua costa orientale, George Ioan Bratianu,1 circoscrivendo i limiti geografici e cronologici e alla luce delle nuove acquisizioni storiografiche. In pratica un gigantesco lavoro di sintesi. Naturalmente peccavo di presunzione; di quella presunzione che è tipica di chi ha una grande passione, ma non le adeguate conoscenze della materia.


















 Volevo, in poche parole, ricostruire gli oltre due secoli di storia che separarono la caduta di Costantinopoli del 1203-1204 e le campagne di Tamerlano nel Caucaso con specifico riguardo alla costa orientale del Mar Nero. Mi chiedevo cosa fosse effettivamente accaduto in quella regione così affascinante e poco indagata dagli studiosi italiani in un periodo durante il quale molte cose vennero a mutare sia da un punto di vista politico sia (ed è la cosa che più mi interessava) da un punto di vista culturale. Già questo presupponeva una serie di competenze che, da medievista formatosi in una pur prestigiosa università italiana non avevo e meritava un insieme di riflessioni che avrebbero imposto alla mia ricerca tempi enormemente superiori ai tre anni previsti per una tesi dottorale. 


















Mi volsi allora a un ambito geografico più ristretto, il mar d’Azov e la foce del Don dove sorse, durante la grande stagione commerciale genovese e veneziana, l’emporio della Tana. Gli scambi di idee avuti con studiosi che si erano occupati di queste problematiche mi convinsero a valutare la vicenda di quell’insediamento in un contesto comparativo più ampio; vedere cioè se il caso della Tana, documentato per gli anni centrali del Trecento, costituiva un’eccezione nell’ambito dei rapporti latino-mongoli in quella regione. Quest’ultima via è quella che poi ho seguito e che ha portato alla realizzazione della tesi di cui sopra. Pensando di ricavare un libro dal lavoro svolto nei tre anni di dottorato mi sono chiesto se fosse stato il caso di presentare al lettore un tomo di oltre cinquecento pagine che mi sono poi accorto essere stato sostanzialmente un laboratorio in itinere; un insieme di riflessioni su una materia che presenta molti troppi problemi interpretativi. 




















Il lavoro fatto sulle fonti di prima mano male si sposava con quello effettuato sulla produzione narrativa e l’insediamento della Tana risultava quasi un corpo estraneo al resto della ricerca. Ho dunque ritenuto opportuno ripensare la struttura del libro e di rimetterci mano per realizzare un’opera che potesse quanto meno fare il punto della situazione degli studi sul Caucaso nel Medioevo, presentare le più difficili questioni che lo riguardano e fornire una prima lettura di un evento complesso come l’esperienza mongola. Nella sua introduzione al libro di W.E.D. Allen2 sir Denison Ross affermava: «nearly everything of importance on Georgia that has since been written is in Russian or in Georgian, and mostly buried in learned periodicals». L’ultima grande opera sullo stato caucasico cui anche Ross si riferiva nel suo scritto – e accessibile agli studiosi occidentali in quanto scritta in francese – era la monumentale Histoire de la Géorgie di Marie Félicite Brosset.3 

























 A distanza di oltre settant’anni da quella pubblicazione e più di un secolo e mezzo dopo l’Histoire di Brosset lo stato della letteratura scientifica occidentale sulla Georgia è molto cambiato.4 In Russia gli studi sono andati avanti, sin dall’Ottocento, nell’esigenza di collocare il grande Paese slavo nel contesto geografico e politico mondiale e di trovare un posto fra l’Europa, interprete della civiltà dell’Occidente medievale e l’Asia, ovvero l’ambito geografico entro il quale la Russia stessa si inserisce per due terzi della sua estensione. Negli Stati Uniti molti sono gli specialisti che hanno volto con cura e grande preparazione le loro energie ad Est e sul Caucaso in particolare. In Europa si è spesso guardato al Caucaso in riferimento agli avvenimenti contemporanei. Tuttavia in Gran Bretagna, in Francia e in Germania la tradizione degli studi è assai solida. In Italia oggi manca una forte attenzione di taglio storico all’Europa centro-orientale per quanto riguarda il Medioevo.






















 Quello di Caucasia è un concetto in parte costruito e spesso sovrapposto all’immagine dell’Oriente; una nozione, quest’ultima, astratta, forse una categoria culturale, che acquista vigore e concretezza quando si è in grado di problematizzarla e comprenderne non solo le vicende interne, ma anche le  molteplici influenze che essa ebbe sulla storia occidentale. La Caucasia di cui mi sono occupato non è un concetto geografico rigido. Non si tratta della catena montuosa e della regione che la circonda o meglio, non si tratta solo di questo. Il Caucaso, che talvolta chiamo (forse impropriamente) Caucasia, è qui considerato come quell’area che dal Mar d’Azov scende verso sud fino a includere la Georgia attuale formando un’autentica barriera naturale prima di quell’Oriente che ancora nel XII secolo era, per l’uomo europeo, una pura immagine mentale. 

















Certamente il periodo della dominazione mongola non fu la prima occasione durante la quale culture sedentarie e civiltà nomadi si trovarono a interagire; è pero in seguito a questo evento che la Caucasia subì un potere coerente da parte di un unico sistema organizzato il quale, per un certo periodo racchiuse in sé i caratteri di entrambi i modelli; la genesi di tale processo e parte dei suoi risultati costituiscono l’oggetto fondamentale del lavoro. Geograficamente la Caucasia è un istmo che separa il Mar Nero dal Mar Caspio e l’Europa dall’Asia. È situata, da nord a sud, fra il Mar d’Azov e l’Armenia settentrionale. Nel punto più largo fra Mar Nero e Mar Caspio vi sono 500 km. La costa del Mar Nero è complessivamente di circa 1.500 km compreso il Mar d’Azov (poco meno, 1.360 km, misura la costa della Caucasia caspica). Entro questi limiti la Caucasia copre una superficie di oltre 465.000 km2 . Il Mar d’Azov è un catino d’acqua che misura 42.000 km2 . Il terreno ad esso circostante è prevalentemente sabbioso, la costa frastagliata. Nei mesi invernali è quasi inagibile a causa delle basse temperature e della conseguente glaciazione delle sue acque. 























Il Mar Nero ha una superficie d’acqua che supera i 420.000 km2 . Nel punto più profondo arriva a 2.245 m, ma mediamente non supera i 1200 m. Il Mar Nero accoglie le acque di alcuni fra i fiumi più lunghi d’Europa: Dnepr, Danubio, Dnestr, Bug e, indirettamente, il Don. Diverso è il discorso per quanto riguarda il Mar Caspio. Esso è un lago chiuso la cui superficie è ampia (438.000 kmq). Accoglie il più lungo fiume d’Europa, il Volga, nel cui delta le acque sono paludose e basse. È nel mezzo della depressione uralo-caucasica. Le sue acque non sono profonde, al massimo raggiungono i 900 metri, ma oramai dovremmo aggiornare i dati con ritmo giornaliero poiché l’indiscriminato sfruttamento delle sue terre coperte per l’estrazione del petrolio ne sta letteralmente distruggendo l’ecosistema. A nord non vi sono profondità che superano i 10 m, laddove la media complessiva è di soli 180 m. 






















A differenza di altre realtà etnico-politiche inserite in contesti ambientali simili (si pensi alla Rus’ o alla regione del Tibet), dove si è verificata una sorta di integrazione ideologica sovranazionale nel segno del religioso, nel Caucaso i particolarismi sono sopravvissuti e talvolta si sono addirittura accentuati. Stiamo parlando di un’area estesa, ma non più di quanto lo fosse la Rus’ kieviana, né più di quanto lo siano alcuni Stati dell’Asia centrale. In una relazione tenuta a Spoleto nel 1995 Maurizio Tosi, archeologo e profondo conoscitore dell’Asia, faceva notare come nella regione del Tibet il buddismo Mahayan-Vjrayana, portato dall’India  settentrionale attorno al VII secolo a. C., determinò una spinta integrativa per cui in quell’area si rileva ancora oggi un’omogeneità culturale straordinaria.5 Nel Caucaso, nonostante la ripetuta penetrazione delle tre grandi religioni monoteiste, ciò non si è verificato. Nessuna è riuscita a prevalere. Quanto hanno influito su questo le incursioni del nomadismo e in particolare l’esperienza mongola? I Mongoli giunsero fino alla costa adriatica durante la seconda spedizione a Ovest, ma il punto più occidentale di quell’entità organizzata che fu l’impero divenne proprio la Caucasia. Per determinare le conseguenze che su di essa ebbe l’invasione mongola sono partito da un evento che cambiò sostanzialmente gli equilibri politici della regione, favorendo l’avanzata del nomadismo: la IV crociata.

























 L’indebolimento dell’impero bizantino non fu causato dalla crociata medesima; essa fu la conseguenza di molteplici fattori che gli specialisti di storia bizantina hanno già egregiamente illustrato. Si è cercato di indagare l’evoluzione della politica bizantina e le sue conseguenze guardando a est, mettendo l’accento sulle relazioni fra Bisanzio, la Georgia e l’Armenia, solo sfiorando le ben note vicende occidentali che portarono alla realizzazione della crociata. Si è poi deciso di affrontare il tema di quella che considero l’ultima grande ondata nomade nelle steppe russo-meridionali fino al Caucaso prima dell’esperienza mongola e rappresentata dall’insediamento della popolazione turco-nomade dei Cumani. Seguendo un ordine tematico, più che cronologico, mi sono poi soffermato (capitolo terzo) sul rapporto fra il grande regno cristiano della Georgia e il nomadismo negli anni a cavallo dell’esperienza crociata. 





















L’indagine della società tradizionale mongola, il contesto sociale originario all’interno del quale si formò l’unione delle tribù che in Occidente venne percepita come un unico popolo sotto il nome di Tartari costituisce l’oggetto del capitolo quarto. Studiare l’organizzazione sociale originaria credo possa aiutare a comprendere molte delle dinamiche politiche, ma anche sociali e culturali che caratterizzarono l’impero mongolo dopo la sua completa formazione. Nei capitoli successivi si è cercato di dare un quadro generale delle conquiste mongole, fenomeno complesso e poco conosciuto nella sua specificità. Le conseguenze politiche furono notevoli e cercherò di darne conto; così come cercherò di ricostruire gli effetti culturali della conquista soffermandomi sul fattore religioso, la presunta tolleranza del ceto dirigente mongolo verso il culto locale e molte altre questioni legate a questo aspetto, il quale è stato spesso oggetto di fraintendimenti. Chiude il libro il capitolo ottavo nel quale vengono considerate le conseguenze demografiche dell’invasione e i fattori pregressi che ne accentuarono il carattere distruttivo in un’ottica cronologica più ampia, fino alle invasioni di Tamerlano nel 1395.



















 La vastità dell’area considerata e la sua eccezionale diversità etnico-culturale ha imposto alcune scelte sulla cui opportunità si potrebbe discutere a lungo. Oggi più che mai si avverte la mancanza di una contestualizzazione dell’esperienza commerciale occidentale all’interno del complesso paradigma fra l’elemento etnico dominante, quello caratterizzato dal modello nomade, e l’elemento “visibile” occidentale, quello che siamo in grado di studiare meglio grazie alla memoria scritta lasciata dagli attori di quella stagione. L’esperienza mongola è stata spesso considerata entro i limiti di un dualismo interpretativo (il giogo = rivoluzione/innovazione) che spero di aver, almeno in parte, ridimensionato. Il motivo per cui ho scelto di occuparmi di un ambito cronologico che va dal 1204 fino al 1295 è solo apparentemente politico. Per quanto riguarda il termine di partenza ho già detto: la caduta di Costantinopoli è il simbolo di un potere straordinario come quello di Bisanzio che crolla lasciando un vuoto per certi versi incolmabile (e per quasi due secoli incolmato). Sappiamo che l’impero non cadde fra il 1203 e il 1204; il processo che ne detterminò la frantumazione fu lungo e complesso, ma queste date, storiche appunto, sono molto utili per lo studioso che deve circoscrivere cronologicamente i limiti della propria ricerca.



















 Il 1295 è l’anno in cui l’Ilkhanato di Persia, guidato da Ghazan, prenderà definitivamente la sua via, inaugurando una serie di riforme che ne faranno uno stato in piena regola. Verrà adottato l’Islam come religione ufficiale e di fatto si consumerà la rottura con l’Orda d’Oro, peraltro già ampiamente incubata nelle guerre di confine proprio sulla linea del Caucaso (l’anno prima, 1294, era morto Quibilaj, Gran Khan). Nel 1395 si abbatté sulla Caucasia l’invasione timuride. Gli eserciti di Tamerlano sciamarono da Bukara a Tbilisi, da Saraj alla Tana riesumando in parte la distruzione che solo un secolo e mezzo prima era stata portata da Gengis khan e dai suoi generali. Fu un evento dalle caratteristiche assai diverse. Le conquiste di Tamerlano, figura affascinante e controversa, rappresentano per certi versi il punto in cui un cerchio si chiude; l’esperienza mongola perdurerà e verrà definitivamente regolata solo nel XVII secolo, quando una famiglia di mercanti russi, gli Stroganov, aiutati da un esercito irregolare di origine contadina che combatteva sotto il nome di Cosacchi, sconfiggeranno l’esercito dell’ultimo khanato, quello di Siberia, coronando l’ascesa di Mosca e regalando allo zar (Ivan IV, il Terribile) uno Stato tricontinentale.6 Questo lavoro è pieno di limiti e d’altra parte non potrebbe essere altrimenti data la vastità dell’argomento trattato. Mi sono soffermato su quegli aspetti che ritengo possano costituire un buon esempio nella comprensione del fenomeno generale. 




















Spero che i risultati espressi siano di compensazione laddove non sono riuscito a soddisfare appieno nemmeno le mie stesse aspettative. Circa due secoli or sono Aleksander Puškin si volse al Caucaso per mettere in evidenza il precoce invecchiamento morale dei suoi giovani coetanei con questi versi: In Russia la lontana strada mena,/Nel paese ove ardente giovinezza/Egli imprese superbo senza affanni/Ove conobbe la prima gioia/Ove amò tante cose care, Ove accolse la fiera sofferenza e più avanti: Fece prova degli uomini e del mondo,/Seppe il prezzo della fallace vita. Ancora oggi, per chi ama quella terra, il prezzo della «fallace vita» è l’immagine della «prima gioia. Putroppo.















Poiché nel volume si affrontano temi legati a realtà culturali profondamente diverse fra loro la traslitterazione è un problema irrisolvibile con un sistema che sia coerente. Si è dunque deciso di adottare soluzioni non sempre rigorose privilegiando la forma più vicina alla leggibilità in italiano. Per i nomi di origine slava si è adottata la traslitterazione scientifica dal russo adottata dagli slavisti, proposta da Giovanni Maver nell’Enciclopedia Italiana. 
























Per la traslitterazione dell’alfabeto armeno non ci siamo attenuti rigidamente, come rigore scientifico vorrebbe, al sistema Hübschmann-Meillet-Benveniste, in questo caso abbiamo privilegiato l’assonanza con l’italiano. Stesso discorso vale per l’alfabeto georgiano, per il quale avremmo potuto seguire i criteri seguiti dalla Revue des études géorgiennes et caucasiennes. Anche in questo caso si è privilegiato l’aspetto fonetico adottando la forma più vicina all’italiano. Per i termini di origine araba e persiana abbiamo seguito la versione data dall’Enciclopedia dell’Islam, edizione inglese citata in bibliografia. Quanto al mongolo ho preferito seguire i criteri accettati dalla lingua moderna. Tuttavia in alcuni casi ho utilizzato la versione comunemente adottata per i nomi più noti anche in occidente; ad esempio ho usato Gengis Khan in luogo di Chinggis Qan, Ilkhanato in luogo di Īlkhānato; Cazari in luogo di Chazari o Khazari, ecc.















 











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